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His House – Recensione del film di Remi Weekes
Recentemente aggiunto al catalogo di Netflix Italia, “l’horror sociale” His House è una co-produzione Stati Uniti d’America/Regno Unito, film del 2020 diretto dall’esordiente Remi Weekes.
His House fa parte di quel filone di “drama-horror” sviluppatosi negli ultimi 10 anni che usato il concetto di “orrore” come metafora per veicolare messaggi più profondi. Si tratta di un film intelligente ed inquietante che tratta argomenti delicati ed attuali, come l’immigrazione e l’integrazione razziale.
I protagonisti Bol e Rial sono profughi del Sudan fuggiti dalla guerra e traumatizzati dal lutto, ai quali viene assegnata una fatiscente casa popolare. Ma l’entusiasmo del nuovo inizio viene stroncato quando si accorgono che in casa non sono soli…
La pellicola riesce a comunicare l’angoscia e lo smarrimento dei due, della donna in particolare, nel nuovo ambiente, dipingendo come ostili e labirintiche le sporche strade della periferia urbana.
Nonostante gli sforzi, la coppia fatica ad inserirsi fra la gente: c’è aperta diffidenza e disprezzo nei loro confronti, Rial non trova supporto nemmeno nelle persone che sembrano “della sua razza”, persone di colore però cresciute in un contesto agiato che non possono capire quello che ha passato lei. Non c’è connessione nemmeno con chi si mostra gentile: nessuno può comprendere quello che ha visto e vissuto, saranno sempre diversi da quelli che li circondano e dalla loro esistenza frivole e vuote.
Come se non fosse abbastanza spaventoso abbandonare la propria vita per ricominciare da zero in un luogo sconosciuto, nella loro nuova abitazione ci sono presenze non umane. Hanno portato qualcosa con loro, quando il barcone si è rovesciato fra le onde. Il loro popolo lo chiama “apeth”, uno stregone della notte, un’entità che porta sventura a coloro che lo meritano.
Al classico tema dalla ghost story va dunque a fondersi un affascinante sottotesto folkloristico che dà una connotazione originale e assolutamente efficace al lato “horror” della vicenda.
Le apparizioni degli spettri danno i brividi, ci sono jumpscare ben posizionati e momenti di allucinazione da incubo, dove i due protagonisti rivivono i traumi della fuga. L’apeth, che si mostra in tutta la sua mostruosità nel finale, ha un make-up convincente che ricorda un po’ la Nina Medeiros di Rec.
Non c’è realmente un modo di sfuggire alle raccapriccianti visoni, non c’è possibilità di liberarsi di questi fantasmi, perché sono i fantasmi del passato di Bol e Rial, i fantasmi della guerra, della miseria e della disperazione, il senso di colpa dei due che si materializza per ricordare loro costantemente che sono sopravvissuti, ma che in tanti non sono stati ugualmente fortunati.
E non possono fare altro che farli entrare, i fantasmi, e cercare di conviverci.